In via sperimentale, dal primo maggio 2017 e fino al 31 dicembre 2018 saranno operativi l’anticipo pensionistico (Ape) e la rendita integrativa temporanea anticipata (Rita): due nuovi provvedimenti pensionistici inseriti nella manovra 2017 per garantire maggiore flessibilità nell’accesso al pensionamento, assieme ad altri strumenti quali il cumulo gratuito dei contributi e il prolungamento anagrafico di tre mesi dell’Opzione donna.

Ape e Rita erano già state trattate nelle Informative ANQUI n. 8, 8 bis e 9 in via previsionale ma, visto l’approssimarsi dell’avvio di questi provvedimenti, riepiloghiamo la materia in modo organico.

Ape e Rita prevedono entrambi che, per accedervi, il lavoratore abbia compiuto 63 anni di età e maturato almeno 20 anni di contributi (per Ape volontaria) anticipando il pensionamento di vecchiaia di un periodo non superiore a tre anni e sette mesi. Ci sono anche casi particolari in cui Ape richiede altre soglie.

Noi aggiungiamo che Rita andrebbe vista principalmente come un addendum ad Ape, per attenuare in tutto o in parte l’onere a carico lavoratore. Infatti Ape si basa su un prestito finanziario rimborsabile in venti anni e Rita su un ritiro anticipato di somme maturate da parte del dipendente (che sarebbero state disponibili solo al raggiungimento della pensione) dal fondo pensione a cui il lavoratore (più l’azienda) li aveva destinati. Quindi l’opzione integrativa pensionistica Rita vale solo per coloro che hanno aderito alla previdenza integrativa.

APE, LE DIVERSE FORME DELL’ANTICIPO PENSIONISTICO

Ape volontaria o “di mercato”

I lavoratori interessati potranno andare in pensione in anticipo rispetto ai dettami della legge Fornero grazie a un prestito finanziato dalle banche. Prestito che dovrà essere restituito a rate in 20 anni dal neo-pensionato.

Si rivolge a lavoratori dipendenti pubblici e privati e ai lavoratori autonomi, con almeno 20 anni di contribuzione e la durata minima di adesione ad Ape dovrà essere di almeno sei mesi, rispetto alla data di maturazione della pensione di vecchiaia (Ape avrà quindi una durata da sei mesi a tre anni e sette mesi).

Più il periodo sarà breve e più il “tetto” sarà alto, anche fino al 95% della pensione mensile certificata dall’Inps; più il periodo si allungherà e più il tetto scenderà, con l’evidente obiettivo di abbassare l’onere di rimborso ventennale.

Da tenere presente, in modo assolutamente positivo, che è anche prevista una polizza assicurativa obbligatoria per il caso di premorienza; nel qual caso, operando l’assicurazione, il debito residuo non intaccherà l’eventuale pensione di reversibilità o, in assenza di reversibilità, non genererà indebiti agli eventuali eredi.

È rivolta a coloro che percepiranno una pensione superiore a 1,4 volte il minimo (per il 2017 pari a  702,65 euro), al netto dell’ammortamento del  prestito contratto.

Requisito essenziale è che manchino tre anni e sette mesi di anticipo, rispetto alla scadenza naturale di maturazione del diritto alla pensione di vecchiaia.

La sperimentazione  partirà il primo maggio 2017 e si chiuderà al 31 dicembre 2018. Eventuali proroghe dal 2019 dovranno tenere conto dell’adeguamento all’aspettativa di vita.

Occorrerà valutare attentamente, su base individuale, la percentuale di Ape da richiedere, per non incorrere in una rata troppo alta.

Ci è stato chiesto da alcuni colleghi e colleghe interessati di quanto si ridurrà in questo periodo l’importo/prestito mensile rispetto all’assegno pensionistico “regolare” che verrà erogato al raggiungimento al diritto a pensione: varierà, ovviamente, in rapporto alla durata e al valore della pensione di partenza.

Per tentare comunque una prima stima, facciamo riferimento alla simulazione presentata a suo tempo dall’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Tommaso Nannicini, che ipotizzava un mancato introito tra il 2 e il 5,5% a seconda del  periodo e dello stipendio a riferimento.

Questi dati sarebbero confermati dai calcoli de Il Sole 24 Ore che  ipotizzano  una riduzione del  4,6% annuo circa per un anticipo dell’85 percento.

Da tenere anche presente la possibilità di abbinare la Rita all’Ape, utilizzando in tutto o in parte il capitale accumulato nel fondo pensione complementare,  per ottenere una rendita mensile aggiuntiva all’assegno pensionistico, negli anni mancanti al raggiungimento della pensione di vecchiaia.

Ape social

La platea degli eventuali beneficiari della cosiddetta Ape social si restringe perché il Governo, nella manovra 2017, ha modificato, all’ultimo momento, il requisito contributivo richiesto da 20 a 30 anni.

Questo provvedimento vale solo per soggetti disoccupati, disabili o con familiari disabili.

Il requisito sale a 36 anni per lavoratori impegnati in attività gravose, negli ultimi sei anni di contribuzione.

L’accesso al beneficio è comunque subordinato alla cessazione di qualunque attività lavorativa, anche autonoma.

Rimane sempre valido quanto segnaliamo da sempre. Suggeriamo a qualunque soggetto in ottica pensione di verificare con il nostro consulente previdenziale la sua situazione anagrafico-contributiva, prima di effettuare qualunque azione o di firmare documenti definitivi, per non avere spiacevoli sorprese.

Ape aziendale

Opererà in caso di ristrutturazioni aziendali e potrà essere integrata dal datore di lavoro, grazie a una contribuzione superiore, previo accordo con il dipendente. Presenta le stesse caratteristiche dell’Ape volontaria.

RITA, LA RENDITA INTEGRATIVA TEMPORANEA ANTICIPATA

Sostanzialmente Rita potrebbe anche essere un’alternativa all’Ape, ma in genere, come detto, sarà più propriamente un’integrativa. I lavoratori che accederanno alla prestazione avranno un capitale da trasformare in rendita, in anticipo rispetto alla pensione obbligatoria.

I requisiti sono avere almeno 63 anni di età, 20 anni di contribuzione, ed essere senza contratto al momento della domanda di pensione. La tassazione sarà agevolata e oscillerà tra il 9 e il 15 per cento, per i lavoratori che hanno già un’iscrizione da lungo tempo (più di 15 anni) a un fondo pensione integrativo.

Il meccanismo della Rita prevede che il capitale accumulato come previdenza integrativa possa essere utilizzato dal dipendente, in tutto o in parte, integrando o meno l’Ape.

È intuitivo che si dovrà valutare il beneficio economico: se si utilizzerà tutto il capitale accumulato, spalmandolo ad esempio su 3 anni, quando si raggiungerà la pensione di vecchiaia, non si avrà più la pensione integrativa. Di converso, nei 3 anni di esempio, integrando Ape  con Rita, il lavoratore avrebbe una disponibilità mensile molto più alta, anche se per un periodo più breve, ma annullando di fatto gli effetti della previdenza complementare.

Il lavoratore che vorrà quindi fruire dell’anticipo offerto da Rita dovrà procedere secondo le regole di domanda al Fondo, che il Fondo stesso metterà a disposizione degli iscritti e che sarà molto simile (se non uguale) alla domanda che sarebbe stata fatta al tempo dell’andata in pensione o per l’anticipazione del tfr.

PREPENSIONAMENTI

Come già riportato nelle Informative n.2 e n.8 del 2013, la legge 92/2012, ai commi da 1 a 7-ter dell’art.4, potrà essere applicata in quelle aziende che abbiano più di 15 dipendenti e prevede la possibilità dell’esodo incentivato dei lavoratori aventi determinate caratteristiche.

Il Ministero del lavoro ha diffuso le circolari 24/2013 e 33/2013 a seguito delle quali l’Inps ha emesso la circolare n.119 del primo agosto 2013. A questo punto le aziende interessate possono prenderne visione al fine di valutare la loro convenienza economica a sostenere un consistente esborso, per pensionare anticipatamente i loro lavoratori più anziani, ma che non abbiano ancora raggiunto i requisiti per maturare la pensione, di vecchiaia o anticipata, dopo la riforma Fornero di buona  memoria.

Quali sono le categorie di lavoratori che potrebbero essere interessati?

Tutti indistintamente, compresi i dirigenti, purchè alle maestranze non manchino più di quattro anni (48 mesi) per maturare i requisiti minimi alla pensione.

Le motivazioni a cui le aziende possono ricorrere sono le più disparate: rendere operativo uno snellimento della forza lavoro, a fronte di una ristrutturazione aziendale; oppure, ad esempio, come abbiamo riportato nella Informativa n.13 del 2012,  rendere possibile un ricambio generazionale, una sorta di staffetta tra lavoratori anziani e più giovani, per un miglior utilizzo del personale.

L’erogazione dell’indennità

Si basa su una serie di accordi collettivi che produce la cessazione del rapporto di lavoro per quei lavoratori che, come detto sopra, raggiungeranno il diritto alla pensione nell’arco di 48 mesi.

I lavoratori che rientreranno nell’accordo, per effetto della loro accettazione individuale, a partire dal mese successivo a quello in cui hanno percepito l’ultima retribuzione, riceveranno una indennità mensile (che non sarà ancora una pensione vera e propria) pari al valore della pensione maturata al momento in cui hanno lasciato l’azienda.

L’indennità  verrà corrisposta dall’Inps, ma con l’onere economico a carico del datore di lavoro, per tutto il periodo intercorrente tra il primo mese successivo all’uscita dall’azienda e il mese precedente a quello in cui l’Istituto previdenziale erogherà la pensione.

Nel periodo di corresponsione dell’indennità verranno anche accreditati i contributi figurativi, utili per aumentare il valore della effettiva futura pensione.

Gli accordi

Esistono tre tipi di accordi: incentivi all’esodo mediante accordo aziendale, accordi sindacali nell’ambito delle procedure ex articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223, e processi di riduzione di personale dirigente.

Quello che pensiamo andrà per la maggiore si basa su un’intesa con i Sindacati più rappresentativi presenti in azienda e sarà valido per operai, impiegati e quadri, mentre per i dirigenti l’accordo verrà firmato con l’Associazione sindacale stipulante il contratto collettivo di lavoro della categoria.

Questi due tipi di accordi sindacali sulla riduzione del personale saranno la base per gli eventuali accordi individuali tra azienda e lavoratore, per la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro.

L’accettazione sarà su base volontaria: in mancanza dei requisiti oppure perché il lavoratore non firma l’accordo individuale, potrà subentrare un altro lavoratore.

Il terzo tipo di accordo si basa sulla legge 223/91 sulla mobilità: è un esodo obbligatorio per effetto di accordi sindacali firmati secondo le regole scritte nella predetta legge, ma che non darà luogo all’indennità di mobilità, bensì alla indennità definita prima.

Per inciso ricordiamo che l’indennità di mobilità ha cessato i suoi effetti a partire dal primo gennaio 2017, a vantaggio della Naspi.

In tutti casi il raggiungimento nei quattro anni successivi alla cessazione del rapporto di lavoro, dei requisiti per il pensionamento, andrà verificato con riferimento alle regole pensionistiche vigenti al momento della cessazione del rapporto di lavoro, comprensive degli adeguamenti all’incremento della speranza di vita residua.

La procedura

Il datore di lavoro interessato presenta domanda all’Inps, competente per territorio, accompagnata da una fideiussione bancaria a garanzia della solvibilità dell’imprenditore. La domanda deve essere successiva ai vari accordi sindacali e deve contenere l’elenco dei lavoratori interessati all’esodo anticipato. In base a questo elenco l’Inps verificherà i requisiti del datore di lavoro e del lavoratore; per quest’ultimo l’Inps emetterà un estratto conto certificato, validando le singole posizioni individuali e calcolando l’importo della prestazione (indennità mensile) e l’onere della contribuzione figurativa.

Solo per accordi che si perfezionino nell’ambito della procedura di cui agli articoli 4 e 24 della legge n. 223/1991, la mancanza del presupposto che tutti i lavoratori interessati abbiano i requisiti soggettivi prescritti in capo a uno o più lavoratori comporta l’invalidazione dell’accordo.

In questo caso però la circolare 33/2013 prevede che “allo scopo di evitare il decadimento dell’accordo per mancanza dei requisiti prescritti (omissis) le parti stipulanti potranno tuttavia convalidare ex post l’accordo medesimo ovvero prevedere ex ante che esso resti valido in presenza di un numero minimo di lavoratori per i quali sia riscontrata la presenza dei requisiti soggettivi o indipendentemente da tale numero”.